Ero davanti allo specchio dopo una riunione andata male. Quelle in cui dici una frase sbagliata, ti impunti su un dettaglio e poi – ovviamente – lo realizzi troppo tardi. Dentro di me, un’ondata di autocritica: “Ma che figura hai fatto?”, “Sei sempre la solita”, “Non imparerai mai.” Non era solo delusione. Era allarme puro, come se qualcosa di vitale fosse in pericolo. Ma perché? Perché reazioni così forti per un errore così piccolo? La risposta è nel nostro cervello. Più precisamente, in una parte molto antica: il cervello rettiliano.
1. Il cervello rettiliano: il nostro guardiano preistorico

Il cervello rettiliano è la parte più primitiva dell’encefalo umano. Viene chiamato così perché è simile, per struttura e funzione, a quello che troviamo nei rettili: lucertole, serpenti, tartarughe. Animali che non ragionano, ma reagiscono.
È composto principalmente dal tronco encefalico e controlla le funzioni vitali: respirazione, battito cardiaco, riflessi di attacco o fuga. Non conosce sfumature: per lui, ogni situazione è sicura o pericolosa.
Immagina una lucertola: se sente un rumore improvviso, scappa. Non si chiede se fosse il vento o un predatore. Non analizza. Agisce. Così fa anche il nostro cervello rettiliano quando riceve uno stimolo percepito come minaccioso.
Ora, applicalo a noi. Quando ti autocritichi, quella parte del cervello interpreta la tua voce interiore come una minaccia reale. E parte la risposta automatica: tensione muscolare, battito accelerato, mente in allerta. Proprio come una tartaruga che si ritrae nel guscio.
2. Autocritica e minaccia: un dialogo tossico dentro la testa

Il problema è che il cervello rettiliano non sa che sei tu a parlarti male. Interpreta il giudizio interno come un attacco. Risultato? Ti stressi, ti irrigidisci, ti chiudi.
Kristin Neff, psicologa e ricercatrice, ha studiato a fondo questo meccanismo. I suoi lavori mostrano come l’autocritica attivi il sistema di minaccia del cervello, lo stesso circuito coinvolto quando ci sentiamo in pericolo fisico.
🧠 Zone coinvolte:
- Amigdala: allerta emotiva
- Corteccia cingolata anteriore: dolore emotivo
- Ippocampo: memorie traumatiche
💡 Esempio: hai mai notato che, dopo una giornata in cui ti sei giudicato duramente, sei fisicamente stanco? Come dopo aver corso o combattuto? È il cervello rettiliano che ha mantenuto l’interruttore del pericolo acceso per ore.
3. Il metodo Neff: sostituire la critica con la compassione

Kristin Neff propone un'alternativa concreta e supportata da dati: l’autocompassione.
Contrariamente a quanto si pensa, non è un “coccolarsi” o giustificarsi. È riconoscere che stai soffrendo e rispondere come faresti con una persona a cui vuoi bene.
I tre pilastri dell’autocompassione:
- Gentilezza verso sé stessi
→ Usi parole di comprensione invece di giudizio.
🗣️ Invece di: “Sei un disastro”, prova: “Hai fatto un errore, ma puoi rimediare.” - Umanità condivisa
→ Ricordi che tutti falliscono. Nessuno è perfetto.
🗣️ “Anche altri commettono errori. Non sei solo.” - Mindfulness
→ Prendi consapevolezza delle emozioni senza amplificarle o reprimerle.
🗣️ “Sto provando vergogna. È difficile, ma posso restare presente.”
📚 In diversi studi, Neff ha dimostrato che chi pratica regolarmente l’autocompassione:
- Riduce l’ansia e il cortisolo
- Aumenta la motivazione sana
- Migliora la resilienza dopo un fallimento
4. Una pratica semplice: il “Self-Compassion Break”
Nel momento in cui senti partire l’autocritica, fermati. Respira. E ripeti queste tre frasi:
- “Questo è un momento di sofferenza.”
- “Anche altri vivono momenti così.”
- “Che possa essere gentile con me stesso in questo momento.”
Non è magia. È biochimica: questa sequenza attiva il sistema di sicurezza e rilascio dell’ossitocina, spegnendo il cervello rettiliano e riportandoti a uno stato più lucido e centrato.
Conclusione
Il nostro cervello rettiliano ha un solo scopo: proteggerci. Ma oggi, in un mondo dove le minacce sono spesso psicologiche, quella protezione può diventare una prigione.
Grazie agli studi di Kristin Neff, sappiamo che esiste un modo per “educare” quella parte di noi: non attraverso la forza, ma attraverso la gentilezza. Non cercando di spegnere la voce interiore, ma insegnandole a parlare con un altro tono.
💬 Un invito: la prossima volta che ti viene da dirti “non sono abbastanza”, chiediti: “Lo direi così a un amico?” Se la risposta è no, meriti un altro tipo di voce. Più umana. Più vera.